
Quando tre adolescenti decidono di trasformare la notte di Halloween, simbolo di gioco e spensieratezza, in un incubo per un coetaneo disabile, non è solo una notizia di cronaca. È uno specchio impietoso della nostra società, un grido disperato che ci chiede di fermarci e di riflettere. Ci interroga come genitori, come insegnanti e come cittadini. Perché la violenza dei giovani non nasce per caso, ma cresce nell’indifferenza, si nutre della superficialità con cui spesso trattiamo le nuove generazioni, e si consolida nel vuoto educativo che abbiamo contribuito a creare. L’episodio di Torino è terribile nella sua disumanità. Tre ragazzi hanno sequestrato, picchiato e torturato un compagno fragile, diverso ed incapace di difendersi. Un atto crudele e inaccettabile, che non può essere liquidato come “bravata” o “errore giovanile”. È la dimostrazione di una devianza culturale che ha reso la crudeltà una forma di linguaggio, l’umiliazione un passatempo e la violenza un modo per sentirsi forti, ma ciò che ferisce ancora di più è il nostro silenzio, la nostra passività, la nostra abitudine a indignarci per un istante e poi tornare alla normalità, come se nulla fosse accaduto. Chi tace, acconsente. Questa antica verità morale pesa come un macigno di fronte a episodi come questo. Non è solo il gesto dei tre ragazzi a spaventarci, ma l’assenza di reazione collettiva. Dove erano gli adulti, gli amici e la comunità? Perché nessuno ha fermato quel gioco perverso prima che diventasse tortura? Ogni volta che scegliamo di non vedere, ogni volta che voltiamo lo sguardo davanti a un atto di bullismo, ogni volta che minimizziamo, stiamo educando altri carnefici, stiamo consegnando il futuro al disprezzo e alla violenza. Non è un problema dei “ragazzi di oggi”. È il fallimento di noi adulti. Della scuola, che spesso non ha risorse né strumenti per affrontare il disagio. Delle famiglie, che talvolta si rifugiano dietro schermi e giustificazioni. Delle istituzioni, che non sempre riescono a garantire prevenzione e sostegno. Il bullismo, come il mobbing o la violenza domestica, è una malattia sociale che prospera nel silenzio e nella mancanza di empatia. A lanciare un monito lucido e accorato è il dr. Emanuele Fierimonte, presidente del Centro Studi per la Giustizia e le Istituzioni, che invita a un cambiamento reale e profondo. “…non possiamo più limitarci a denunciare, ma dobbiamo agire – afferma –. Servono programmi educativi strutturati nelle scuole, percorsi di formazione emotiva, monitoraggi seri dei comportamenti online, e soprattutto sostegno psicologico costante per le vittime e per chi assiste in silenzio. ”…perché il testimone…”, ricorda Fierimonte, “…non è un semplice spettatore, ma è parte della scena, e la sua scelta di tacere lo rende, inevitabilmente, complice…”. Le sue parole risuonano come un appello alla coscienza collettiva. Non bastano le condanne o le indignazioni momentanee. Serve una rinascita culturale, una nuova consapevolezza civica che restituisca peso e valore alla responsabilità individuale. Ogni ragazzo violento è anche il prodotto di una società distratta, di un mondo adulto che spesso predica valori ma non li incarna. Torino, in questa notte nera di Halloween, ci restituisce un’immagine amara ma necessaria: quella di un Paese che deve ritrovare il senso della comunità e dell’educazione. Ogni gesto di solidarietà, ogni parola di conforto, ogni intervento tempestivo può fare la differenza. Non possiamo più restare a guardare mentre la crudeltà prende il posto dell’empatia e la paura sostituisce la speranza. “…chi osserva senza reagire diventa complice. E noi non possiamo più permettercelo…”, conclude Fierimonte. Parole che dovrebbero risuonare nelle aule, nelle case e nelle piazze. Perché il silenzio, in queste storie, è sempre il dolo più grande.

